Sono nato a Roma nel 1967 e sono un artista autodidatta. La mia pittura non nasce da un percorso accademico, ma da un’urgenza interiore che non ho mai sentito il bisogno di giustificare. L’incontro con l’ensō è stato un episodio tanto casuale quanto determinante. Un pomeriggio afoso, in una Londra stranamente torrida, mentre aspettavo di parlare con un collega in un piccolo studio dentistico, mi sono trovato davanti a una tela che raffigurava tre cerchi concentrici aperti. Non conoscevo il loro significato eppure mi hanno colpito con la forza di un’immagine destinata a restare.
Da quel momento, il cerchio incompleto si è impresso nella mia memoria come un’ossessione. Per mesi ho continuato a rivederlo, finché, tornato a Roma, in un altro pomeriggio d’estate, ho sentito l’urgenza di riprodurlo. Ho costruito un telaio, steso i colori, e con tre tratti distinti di spatola ho lasciato che quell’immagine prendesse forma. Solo in seguito ho scoperto che quello che stavo dipingendo era un ensō, simbolo di pienezza e vuoto, di inizio e fine, di istante e continuità.
La mia ricerca è profondamente istintiva. Non ho mai studiato la cultura giapponese in modo sistematico, ma l’ho respirata, toccata, percepita. Il mio approccio non è intellettuale: è epidermico. Ho sempre lavorato così, lasciando che la materia e il gesto si trasformassero in un linguaggio personale.
Quando dipingo, l’acrilico diventa per me un fluido vivo. Lo verso sulla tela, lo spalmo con spatole larghe, lo faccio esplodere in schizzi e tracce che, in qualche modo, tornano sempre a evocare il cerchio. Nei lavori che dedico ai cinque sensi – Vista, Udito, Tatto, Gusto, e Senzasensi – il colore diventa esperienza sensoriale: un impasto da vedere, da toccare, da immaginare come fosse suono o sapore. Ogni tela è un tentativo di catturare una vibrazione diversa, un diverso stato di coscienza.
C’è una tensione continua fra istinto e misura, fra la forza di un segno che vuole dire tutto e il silenzio di un vuoto che non pretende di spiegare niente. Alcune opere nascono dall’irruenza – il rosso, il giallo, il nero che si inseguono e si respingono – altre dalla calma di un gesto controllato, quasi meditativo. Ma sempre, in fondo, torno lì: al cerchio incompleto, alla sua promessa di totalità e alla sua accettazione dell’imperfezione.
Il mio ensō non è un esercizio di stile, né un omaggio filologico. È un incontro che mi ha trovato per caso e che da allora non mi ha più lasciato. Ogni opera è un modo per farmi ritrovare di nuovo, per riconciliarmi con quel momento in cui l’immagine è apparsa e mi ha detto, senza parole, che era mia.
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